Immagini ammiccanti, slogan seducenti, jingle ripetuti a oltranza fino a trasformarsi in insopportabili tormentoni. Un bombardamento senza fine, con un unico obiettivo: scolpirci nella mente il nome di una marca o di un prodotto.
In questa tempesta di messaggi un nome azzeccato e facile da ricordare può fare la differenza. Chi acquisterebbe un’automobile dall’improbabile nome di “Valentina”? Molto meglio sognare di partire su una Mito o aggredire ogni tipo di strada su una sicura All Road.
Benvenuti nel mondo del naming, termine inglese per indicare una branca del marketing nata in Francia negli anni ’60, che si occupa di creare i nomi più adatti per la commercializzazione di prodotti e servizi. Mentre infatti fino a pochi decenni fa il nome della marca coincideva spesso con il nome del fondatore o si identificava in un nome descrittivo, oggi c’è bisogno di trovare nomi originali, magari apparentemente privi di significato ma in grado di dare un’identità univoca e precisa a un’impresa o a un bene di consumo.
Nel 1888 George Eastman decise di battezzare “Kodak” la macchina fotografica di sua invenzione. Anticipando di oltre mezzo secolo le prime teorie su questo argomento, Eastman aveva identificato un nome breve, piacevole e facile da ricordare. In pratica un nome perfetto, che poteva oltretutto essere facilmente registrato e tutelato visto che non significava assolutamente nulla.
Creare un nome commercialmente valido non è né semplice né economico. Il concepimento del nome inizia con il brain storming: un gruppo di creativi si riunisce attorno a un tavolo lanciando proposte in totale libertà. Nessuna di esse viene scartata, nemmeno la più strampalata, perché proprio da questa potrebbe scaturire, per associazione di idee, il nome vincente.

Una delle regole auree del naming impone di controllare il significato del nome prescelto nelle lingue dei paesi dove verrà commercializzato. In passato, grandi aziende sono incappate in figure imbarazzanti: i nomi apparentemente più innocui possono infatti nascondere trappole infernali.
Estee Lauder, colosso della cosmesi, qualche tempo fa ha commercializzato in Germania un prodotto dal romantico nome di “Country Mist” (in inglese “nebbiolina di campagna”), senza rendersi conto che il termine “mist” in tedesco significa “letame”.
Sarebbe poi curioso sapere quanti anglofoni di passaggio in Ghana hanno deciso di dissetarsi con una PeeCola visto che “pee”, nella lingua di sua Maestà, significa… “pipì”.
Nemmeno l’utilizzo dei numeri mette al riparo da amare sorprese. Ne sa qualcosa Alfa Romeo che dovette sostituire la sigla identificativa della 164, prima di lanciarla nel mercato asiatico. In certe zone dell’oriente il 4 porta sfortuna. Il numero 164 veniva infatti interpretato come “morte diffusa”. Per risolvere il problema l’auto venne ribattezzata 168, ossia “ricchezza diffusa”, con un evidente miglioramento in termini di immagine.
Negli anni ’70 Renault mise in produzione un coupè battezzato Renault 17. In Italia, e solo da noi, il 17 è noto per portare sfortuna. Ecco perché l’auto, nel nostro mercato, venne commercializzata come Renault 177.
In conclusione, il brand naming può costituire un biglietto da visita utile, un punto di partenza da cui l’azienda può iniziare a costruire se stessa e mostrare la sua vera sostanza… l’importante è scegliere quello giusto!